Trump e la crociata anti-woke: il mondo dell’arte sotto attacco tra revisionismo e censura culturale

In un mondo sempre più diviso tra ideologie culturali contrapposte, l’arte – spesso percepita come terreno neutro o “super partes” – si trova oggi nel bel mezzo di una tempesta ideologica. Negli Stati Uniti, il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha coinciso con l’avvio di un’aggressiva politica anti-woke che ha già avuto effetti profondi sul mondo delle arti visive, delle istituzioni culturali e dell’educazione.
Non si tratta soltanto di un orientamento retorico o comunicativo, ma di una trasformazione sistemica: dalla chiusura di interi uffici dedicati alla diversità nelle istituzioni museali più importanti del Paese, fino a ordini esecutivi che riscrivono il modo stesso in cui si racconta la storia americana. Una strategia culturale che ha un impatto diretto sulla libertà espressiva, sul ruolo critico dell’arte e sulle relazioni internazionali nel mondo dell’arte.
Arte e Politica: una frattura sempre più visibile
L’arte è politica, anche quando pretende di non esserlo. La storia dell’arte è costellata di momenti in cui le immagini, le parole e i simboli sono diventati strumenti di potere, ma anche di resistenza. Dalle censure ecclesiastiche del Cinquecento fino all’arte degenerata sotto il nazismo, passando per le icone pop della guerra fredda, ogni regime ha tentato – più o meno esplicitamente – di controllare la narrazione estetica della società.
Oggi, nell’America trumpiana del 2025, questa tendenza si è fatta evidente e strutturata. La “crociata anti-woke” – così come viene definita da molti osservatori – non si limita a stigmatizzare l’attivismo sociale o a criticare gli eccessi del politicamente corretto. Essa colpisce direttamente il mondo museale, le sue pratiche curatoriali, i linguaggi espositivi e perfino il lessico con cui vengono descritti i contenuti culturali.
Gli ordini esecutivi anti-woke: tagli, censure e riscrittura della storia
Il 20 gennaio 2025, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo volto a cancellare ogni forma di sostegno istituzionale ai programmi DEI (Diversità, Equità, Inclusione), da lui definiti come “programmi di discriminazione illegali e immorali”. Immediatamente, musei come la National Gallery of Art e lo Smithsonian Institution hanno chiuso i loro dipartimenti dedicati alla diversità, rimuovendo ogni riferimento a tali valori dai propri canali ufficiali.
A questo atto è seguito, il 27 marzo, un nuovo ordine esecutivo intitolato “Restoring Truth and Mental Health in American History” (“Ripristinare la verità e la salute mentale nella storia americana”), con cui l’amministrazione si è impegnata a riformulare i contenuti storici proposti nei musei federali, nei centri di ricerca e perfino nello Zoo Nazionale, per evitare ogni “raffigurazione impropria” del passato americano.
Questa misura si traduce in un divieto implicito di affrontare temi storici scomodi come la schiavitù, la segregazione razziale, i massacri dei nativi americani, o la repressione delle minoranze. In pratica, raccontare la complessità storica degli Stati Uniti diventa, per legge, un’attività passibile di sanzioni e tagli finanziari.
Revisionismo storico e censura estetica
La censura imposta non è solo ideologica, ma estetica. Gli artisti che operano su tematiche sociali, di genere, etniche o post-coloniali rischiano di vedere le proprie opere escluse dai circuiti ufficiali, o di non ricevere più finanziamenti pubblici. Si tratta di un colpo durissimo per l’arte contemporanea, che negli ultimi decenni ha trovato proprio nella denuncia e nella riflessione politica una delle sue principali linee espressive.
Un esempio emblematico riguarda la rimozione, all’interno di musei statali, di opere che mettono in discussione i fondamenti del “sogno americano” o che raccontano storie alternative: dai murales afroamericani, alle installazioni trans*, alle sculture ispirate alle tragedie delle riserve indigene. Queste espressioni sono oggi considerate “ideologicamente improprie”.
Il rischio è quello di trasformare i musei in luoghi della celebrazione del potere piuttosto che in spazi di confronto critico. Un’operazione che richiama alla mente le logiche propagandistiche dei regimi totalitari del Novecento.
Il ruolo dell’ICOM e il nuovo Codice Etico dei musei
A fare da contraltare alla visione trumpiana vi è l’ICOM – International Council of Museums, che proprio in queste settimane sta conducendo una storica revisione del proprio Codice Etico. Questo processo, partecipativo e multilivello, coinvolge migliaia di professionisti museali in tutto il mondo e mira a ridefinire il ruolo del museo nella società contemporanea.
I cinque principi fondamentali del nuovo Codice rappresentano una vera e propria dichiarazione di intenti:
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Inclusione e accessibilità: i musei devono servire la società, promuovendo i diritti umani, la giustizia sociale e la pace.
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Etica professionale: le istituzioni devono comunicare con trasparenza, competenza e responsabilità.
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Educazione continua: l’attività educativa non è indottrinamento, ma dialogo e scambio.
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Salvaguardia del patrimonio: le collezioni vanno tutelate e interpretate rispettando la pluralità delle voci e delle prospettive.
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Governance sostenibile: la gestione deve garantire l’indipendenza culturale e la sostenibilità economica.
È evidente come questa visione si ponga in diretto conflitto con quella imposta dall’amministrazione americana. Il modello ICOM difende un museo come spazio aperto, inclusivo e critico, mentre la visione trumpiana mira a creare istituzioni culturali uniformate a una narrazione patriottica e semplificata.
Il ritorno dei dazi e l’isolamento culturale
Accanto alla strategia ideologica, l’amministrazione Trump ha reintrodotto barriere economiche che rischiano di isolare il mercato dell’arte americano. I dazi sulle opere d’arte importate, già sperimentati durante la prima presidenza, sono tornati in vigore, penalizzando in particolare le gallerie europee e gli artisti emergenti.
Questi dazi limitano la circolazione delle opere, frenano gli scambi culturali e riducono le possibilità per gli artisti stranieri di essere esposti in prestigiose sedi americane. Si tratta di una chiusura che non ha solo ricadute economiche, ma anche simboliche: l’arte come dialogo globale viene sacrificata sull’altare del nazionalismo.
Per i musei italiani e per il sistema dell’arte in Europa, ciò significa anche la perdita di visibilità e di opportunità di collaborazione con uno dei mercati più importanti del mondo. Una tendenza che potrebbe spingere a rafforzare le reti culturali euro-mediterranee e sudamericane, favorendo un decentramento della geopolitica dell’arte.
La paura degli artisti e l’autocensura
Non stupisce che molti artisti abbiano iniziato a parlare apertamente di clima di paura. Alcuni, pur avendo la cittadinanza statunitense, hanno espresso timore di rientrare negli USA. Una nota artista, rimasta volutamente anonima, ha dichiarato pubblicamente di sentirsi minacciata anche solo all’idea di dover passare i controlli doganali al rientro nel proprio Paese.
Questo clima favorisce non solo la censura esterna, ma anche l’autocensura, quella forma di silenzio autoimposto che svuota l’arte del suo potere critico. Gli artisti temono ripercussioni, esclusioni, tagli ai fondi. In un sistema dove la sopravvivenza economica dipende anche da bandi pubblici e sovvenzioni, il rischio di conformismo è altissimo.
Umberto Eco e il “Fascismo Eterno”: una lettura necessaria
In questo scenario, appare quanto mai attuale il breve saggio di Umberto Eco, Il Fascismo Eterno, pubblicato in Italia da La Nave di Teseo. Eco descrive quattordici caratteristiche dell’“ur-fascismo”, o fascismo originario, che può manifestarsi sotto forme diverse, anche in società formalmente democratiche.
Tra questi tratti troviamo il culto della tradizione, il rifiuto della modernità, la paura della differenza, il nazionalismo aggressivo, la cultura come sospetto, e l’ossessione per il complotto. La strategia culturale trumpiana, pur non essendo identica a quella dei regimi fascisti storici, presenta diverse di queste caratteristiche, rivelando una preoccupante continuità ideologica.
L’arte come strumento di resistenza
Ma se l’arte può essere censurata, può anche resistere. L’arte è memoria, dissenso, rottura, e non ha mai smesso di opporsi ai tentativi di omologazione. La risposta del mondo culturale, però, non può limitarsi alla denuncia: deve diventare proposta attiva, rete solidale, azione collettiva.
Occorre sostenere le istituzioni indipendenti, incoraggiare pratiche curatoriali critiche, difendere il diritto di raccontare la verità storica anche quando è scomoda. In questo senso, l’Europa ha un ruolo fondamentale da giocare: può diventare laboratorio di una cultura democratica capace di valorizzare la complessità e la pluralità dei punti di vista.
Cultura come bene comune, non come propaganda
Quello che accade oggi negli Stati Uniti non è solo un fenomeno interno. È un campanello d’allarme globale. Se la cultura viene ridotta a propaganda, se i musei diventano strumenti di controllo ideologico, se l’arte perde la propria funzione critica, tutta la società ne esce impoverita.
È tempo di riaffermare il ruolo dell’arte come bene comune, come spazio di libertà e di confronto. E anche di sostenere economicamente e politicamente chi, ogni giorno, dentro e fuori dai musei, lavora per rendere l’arte uno specchio della verità, non un riflesso del potere.
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